Come e perché ho cambiato lavoro, a 45 anni
La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite. È la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più.
Marianne Williamson
Sono sempre stata una persona con un forte bisogno di autorealizzazione, personale ed economica. Ho sempre avuto il desiderio di lasciare un mio piccolo seme nel mondo.
Finché è stato possibile farlo nell’azienda in cui ho lavorato per vent’anni, ne sono stata grata e felice. Poi, a volte, gli equilibri mutano, non necessariamente per colpa di qualcuno: semplicemente cambia lo scenario, o cambi tu.
Fino al 2015 lavoravo come Export Manager in una multinazionale della logistica: ero una responsabile nel settore delle esportazioni internazionali (ho studiato lingue). Era un lavoro di grande responsabilità, in un ambiente stimolante e con un buon clima umano.
A un certo punto ho sentito forte il bisogno di portare fuori da quel contesto ciò che sapevo fare e di trasformarlo in qualcosa di diverso, che avesse più a che fare con le persone che con le aziende e i prodotti.
Di fatto, come capo ufficio, mi occupavo già di persone; dovevo entrare in sintonia con loro, lavorare insieme e guidarle a realizzare gli obiettivi aziendali. Poi mi sono resa conto che il mio desiderio profondo era quello di aiutarle a credere in loro stesse e a vivere appieno la propria vita, a prescindere dal contesto.
E così ho cominciato la mia formazione al coaching.
Perché proprio il coaching?
Il coaching mi offriva la possibilità di fare ciò che avevo sempre fatto in modo istintivo, prima di sapere che fosse una professione: aiutare le persone ad avere fiducia in sé e a realizzarsi, personalmente e professionalmente.
Leggi –> Business Coaching: Come funziona e a cosa serve (secondo me)
L’ho sempre fatto con chiunque incontrassi sul mio percorso, lavorativo e non. È più forte di me. Detesto gli sprechi e non vedere realizzati i propri sogni è un vero sperpero. Anche non condividere il proprio talento e valore è uno spreco, per sé e per gli altri.
Le premesse erano ideali: per diventare coach servono buone doti di metodo e analisi, che avevo ampiamente esercitato nel mio ruolo manageriale in azienda; ma anche ascolto, attenzione, intuito: tutte caratteristiche che sento mie e che mi hanno sempre aiutato nelle relazioni con gli altri.
Da un lato la paura, dall’altra il mio potenziale
Quello da lavoratrice dipendente a libera professionista era certamente un salto enorme. Avrei lasciato il certo per l’incerto; ma a un certo punto ho capito che era l’unico modo per mettere in gioco tutta me stessa e le mie aspirazioni. Era anche l’unica strada per unire missione e passione, in un progetto che fosse davvero mio e potesse evolvere con me.
Così ho gettato il cuore oltre l’ostacolo, cercando di organizzare al meglio il mio piano. Magari avessi avuto accanto qualcuno ad aiutarmi in questo passaggio! Avrei risparmiato tanto tempo ed errori.
Quando ti disponi al cambiamento, la posta in gioco è molto alta: da un lato devi mettere in conto di investire energie e denaro, tenendo sempre alta la tua motivazione; dall’altro c’è in palio il tuo valore, il tuo potenziale. Tra questi due poli corre una grande dose di incertezza, che non si sa come affrontare e che rappresenta spesso uno dei deterrenti principali.
La paura è sicuramente il più grosso ostacolo al cambiamento. Si presenta in varie forme, più o meno confessabili. A volte è sana e ti tutela; ma nella maggior parte dei casi ti lega, ti impedisce di sperimentare e superarti.
In una fase di crescita, è normale che le paure ci assalgano, bloccando le nostre potenzialità. Ci frenano all’inizio e poi di nuovo lungo il percorso, impedendoci di superare gli ostacoli e di rialzarci dalle cadute, che sono inevitabili. Lo so, perché ci sono passata, dunque sono referenziatissima.
The Wall: 3 punti chiave
Per ricostruire le radici profonde della mia scelta di cambiamento, voglio raccontarti una storia.
Il primo film che ho visto al cinema senza i miei genitori è stato Pink Floyd The Wall, di Alan Parker. Era vietato ai 14 anni. Ci andai con le mie amiche più grandi: loro andavano già alle superiori ed erano in regola; io invece non li avevo ancora compiuti, ma dimostravo un po’ di più e riuscii a farla franca.
Il film fu davvero molto forte e io non ero per niente preparata a quelle scene inquietanti. Oggi mi rendo conto che fu per me un passaggio fondamentale, anche se molte cose le avrei capite solo anni dopo.
La sensazione che quella sera mi portai a casa era di condivisione delle emozioni, della paura e del dolore. Realizzai che certi crampi allo stomaco non erano solo miei: non ero l’unica a provare disagio di fronte ai rimproveri ingiusti dei professori o alle liti teatrali dei miei genitori. Da quella sera mi sentivo meno sola.
In più imparai anche un’altra cosa importante: che la vita è una lotta e che, per ottenere qualcosa, bisogna prenderselo.
The Wall fu l’inizio della mia ribellione adolescenziale.
Oggi la portata di quell’iniziazione mi è chiarissima. La individuo in particolare in 3 punti chiave.
- Prima di tutto so che la paura esiste e che va affrontata. Anche se ce l’hanno tutti (e magari non lo ammettono), nessuno ci insegna che cosa sia veramente, né come gestirla. Quando ci rendiamo conto che tutti abbiamo timori destabilizzanti, dubbi inconfessabili, attacchi di panico o di colite, di solito, è già molto tardi.
- Sono riuscita a cambiare lavoro, vita e atteggiamento, nel momento in cui ho capito che il mondo lì fuori non mi doveva niente e che il coraggio e la forza avrei dovuto trovarli dentro di me, e usarli. Non è all’esterno che troviamo la motivazione, ma all’interno di noi stessi. È una notizia buona, perché ci dà potere, ma nello stesso tempo impegnativa, perché ci carica di responsabilità. Non c’è posto per le scuse.
- Un’altra cosa, in cui credo molto, è l’importanza della condivisione. Quello che pensi e che fai, perfino quello che sei, ha senso solo se ti confronti con gli altri. Per citare una frase di un altro film, Into the wild: «Happiness is only real when shared» (La felicità è reale solo se condivisa). Non vale solo per i sentimenti, ma anche per le competenze, le idee e persino i contatti: se non li condividiamo, il loro frutto sarà molto limitato. Se invece li mettiamo in circolo, ci torneranno moltiplicati. Oggi questo è uno dei capisaldi del mio stile di vita e di lavoro. Ne ho parlato anche in un articolo su Come fare un networking efficace, dove tratto la capacità di condividere e generare relazioni come un vero soft skill.
Oggi sono la figura che avrei voluto accanto
In qualità di business coach, oggi la mia missione è aiutare le persone a conoscersi, definire i propri desideri e raggiungere i propri obiettivi nel modo migliore. Dove migliore significa: nel modo più efficace, realistico e plausibile per sé – non per altri. Con prudenza e audacia, amo aggiungere; perché la prudenza è del saggio, ma non è un motore.
Poco dopo l’inizio della quarantena, Baricco citava la scena di un romanzo svedese, in cui la regina sta imparando ad andare a cavallo. Monta in sella e poi, con tono di superiorità, si rivolge al maestro di equitazione: «Quali sono le regole?». Lui risponde: «Prima regola: prudenza. Seconda: audacia».
Non è un invito all’incoscienza. È una questione di visione e di analisi dei fattori. Qualsiasi mossa deve sempre partire da chi siamo, conoscere i nostri punti di forza e le debolezze che ci mandano in stallo. Il coaching parte proprio da questa consapevolezza – se hai fatto l’esercizio creativo del Superpotere sai di cosa parlo.
La mia storia personale mi ha messo davanti a tante ripartenze, dunque oggi posso dire con serenità che me ne intendo 🙂
Mi sento specializzata in cambiamento e posso aiutare chiunque voglia affrontarlo, in modo non solitario o improvvisato, senza passi falsi. Non sempre è una questione di energie o di fattibilità, a volte si tratta di trovare la chiave per accedere alla prossima porta.
Come dipendente prima e come freelance dopo, avrei tanto voluto avere anch’io dei punti di riferimento chiari e magari qualcuno che sapesse ascoltarmi, aiutarmi a definire i miei obiettivi e a tradurre le idee in un piano proficuo di strategia e azione.
Io oggi sono quel qualcuno. Sono la figura che avrei voluto accanto allora.
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