Realizzarsi può voler dire tante cose: esprimere le proprie potenzialità, guadagnare bene, essere riconosciuti dagli altri o diventare pienamente la persona che abbiamo deciso di essere. In questo post ti parlo di autorealizzazione a partire da 3 fonti autorevoli e concludo con alcuni miei suggerimenti. Realizzarsi non è un miraggio, ma serve la strategia giusta.

In questi mesi sto lavorando al redesign del mio sito. Uno degli strumenti che uso per capire chi sono i miei clienti tipo – e che ti consiglio – è la mappa dell’empatia.

La cosa che salta all’occhio è che quasi tutti sono uniti da uno stesso filo rosso. Se infatti chiedessi a ciascuno “Ma cos’è che ti manca?”, avrei risposte tipo:

  • voglio sentirmi più appagata/o, voglio un maggiore riconoscimento del mio valore
  • provo un senso di rivalsa, c’è qualcosa che voglio riscattare
  • voglio guadagnare di più, passarmela meglio con i soldi
  • voglio fare un lavoro che mi appassiona, allineato con i miei valori
  • voglio poter esprimere la mia libertà intellettuale.

Se qualcuna di queste voci risuona anche in te, ti do il benvenuto: qui parlo di autorealizzazione e di come lasciare il proprio segno nel mondo.

A questo proposito, condivido 3 fonti autorevoli da cui ho tratto ispirazione e infine ti lascio con gli strumenti cardine del mio metodo.

1. Il mito di Er in Platone

Alla fine della Repubblica, a mo’ di monito, Platone ci parla di Er: un soldato valoroso che venne condannato a morte in battaglia. Mentre il suo cadavere stava per essere incenerito sul rogo sacro, ritornò in vita per raccontare ciò che aveva visto nell’aldilà.

Dopo la morte le anime salgono al cielo o scendono sottoterra, ricevono premi o tormenti a seconda delle azioni compiute in vita. Trascorsi mille anni, prima di reincarnarsi, si presentano al cospetto delle tre Moire, il cui compito è tessere il filo della vita: a Cloto spetta il presente, a Lachesi il passato e ad Àtropo il futuro.

A ogni anima viene data la possibilità di scegliere il proprio destino: «Sarete voi a scegliere il dàimon [‘nume tutelare’, nda] e, nella immensa vastità di paradigmi di vita a vostra disposizione, sceglietene uno cui sarete necessariamente congiunti».

Er racconta di come le anime, pur commettendo errori nella scelta, fossero desiderose di decidere di sé e ne avessero tutta la facoltà.

Conclusione di Er, Platone e anche mia: la responsabilità è di chi sceglie. In altre parole non ci sono scuse: ognuno è artefice del proprio destino.

2. La teoria della ghianda di James Hillman

A più di duemila anni di distanza, James Hillman, psicoanalista e saggista americano, riprende il mito di Er e associa il concetto platonico di dàimon a quello di vocazione.

Secondo Hillman, ogni persona dovrebbe considerare la propria vocazione come un elemento imprescindibile della propria esistenza, in base a cui determinare cosa fare della propria vita.

Ciascuno di noi, fin da bambino, proprio come una piccola ghianda, racchiude già in sé le potenzialità per crescere e diventare una possente quercia.

Ognuno ha un talento innato che lo rende unico e irripetibile, una propria personalità: quello è il seme da nutrire e far crescere per rendere autentica la propria esistenza e realizzarsi.

Io lo chiamo Superpotere.

3. L’autorealizzazione secondo Abraham Maslow

«L’autorealizzazione è la tendenza a diventare tutto ciò che si è capaci di diventare».

Maslow ha dedicato buona parte della vita a studiare l’autorealizzazione, che intende come il più alto livello che l’essere umano può raggiungere.

Il desiderio di autorealizzazione può avere motivazioni e forme diverse: la ricerca di un equilibrio tra lavoro e vita privata, godersi il tempo libero e i propri hobby preferiti, riscattarsi dall’indigenza e guadagnare di più, realizzare un business che diventi anche passione e missione di vita.

Maslow credeva nella grandezza dell’umanità, e ci credo anch’io. Però la vocazione e il bisogno di autorealizzazione non implicano da soli la messa a terra delle azioni necessarie per conseguire ciò che desideriamo. È necessario disegnare un percorso e tracciare le strade utili per raggiungere la meta, e può non essere facile e lineare.

In genere, la scalata verso l’autorealizzazione si costruisce per gradi. Consiglio sempre di ripartire dai tuoi valori, dalla tua visione e missione.

Stabilisci la tua idea di autorealizzazione

Innanzitutto, chiarisci cosa significa autorealizzazione per te.

Se non sai esattamente dove vuoi andare, dove arriverai? Se non sai cosa desideri, come puoi sperare di ottenerlo?

Una delle principali difficoltà che puoi incontrare è avere un concetto troppo vago e generalizzato di autorealizzazione, e non avere la più pallida idea di come fare a trasformare il tuo desiderio in un obiettivo concreto.

Magari la tua realizzazione personale coincide con un ampio concetto di felicità, serenità o tempo di qualità, ma non sai ancora esattamente come riuscire a fare accadere nella tua vita le cose per le quali ti sentiresti realizzata/o.

Prova a chiederti: cosa deve accadere perché io possa considerare raggiunto il mio obiettivo?

Stabilisci una immagine ben definita nella tua mente, una fotografia che descriva molto dettagliatamente la risposta a questa domanda.

Parti dallo Scenario

Realizzarsi prevede un prezzo da pagare e non può prescindere dalla gestione delle emozioni, dalla responsabilità e dall’impegno. Se vuoi toccare con mano i tuoi sogni devi lavorare su di te quanto sul tuo obiettivo. Solo così potrai progettare un cambiamento in grado di generare risultati.

Per aiutarti a realizzare ciò che adesso non riesci a vedere all’orizzonte, ho creato Scenario, un percorso su misura che ti farà vedere in modo chiaro e preciso cosa serve per avviare o cambiare la tua attività.

Guarda come funziona e, per qualsiasi ulteriore informazione, scrivimi.

In questo articolo ti spiego in cosa consiste l’autostima, cosa può viziarla e cosa, soprattutto, alimentarla. Mi riferisco in particolare a un’altra qualità importante e forse meno nota: l’autoefficacia, che con l’autostima va a braccetto.

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Quando non se ne può più si cambia, diceva Moravia. Il cambiamento è una mutazione, il passaggio da una condizione ad un’altra, e può essere una rivoluzione copernicana, una trasformazione parziale o una variazione minima della situazione attuale.

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Riconoscere i propri punti di forza e di fragilità non è affatto facile.

In genere tendiamo ad avere una visione distorta di noi stessi. Potrebbe essere un problema di bassa autostima, o di difficoltà a gestire le emozioni, o entrambe le cose.

Prima ancora, è proprio un limite del punto di vista. In noi coincidono osservato e osservatore: come possiamo guardarci da fuori? Non è una colpa, è una condizione.

Ancora più difficile è vederci con distacco e lucidità. Proprio in quanto interno, il nostro punto di vista è intriso di vissuti ed emozioni, che ci condizionano. Ripeto spesso che noi non coincidiamo con le nostre emozioni, che sono qualcosa che si prova, non qualcosa che si è. Ma bisogna fare un lavoro per accorgersene e riuscire a ridimensionarle per quello che sono.

Per conoscerci davvero dovremmo uscire da noi stessi, osservarci nel tempo e nel contesto. Un fotografo o un cineasta chiamerebbero questo movimento di camera zoom out: lo zoom all’indietro che allontana i personaggi e fa vedere la scena nel suo insieme, in perfetto equilibrio tra tutti gli elementi, senza deformare o amplificare nulla.

In assenza di un regista, come possiamo fare?

Un percorso di consapevolezza

Conoscerci, sapere con chi abbiamo a che fare, imparare a vederci con obiettività e chiarezza non è un accessorio, anzi: è una leva strategica molto forte e il punto di partenza di qualsiasi progetto efficace. È un fattore chiave, sul lavoro e nella vita.

La cosa positiva è che si tratta di un percorso che tutti possiamo intraprendere. Nel farlo, ci accorgeremo che qualsiasi cosa andiamo a scoprire, che ci piaccia o no, è a nostro favore. La consapevolezza è sempre a nostro favore. Il monito di Delfi – Conosci te stesso – è un invito intramontabile di saggezza.

Fortunatamente ci sono degli ottimi strumenti che ci possono venire in aiuto, per un approccio più spedito. Te ne voglio lasciare ben tre.

1. Fai il test delle 16 personalità

Uno dei modi più divertenti per analizzare noi stessi è fare un test della personalità.

Se non ti fidi dei test frivoli fatti online, capisco e condivido. Quello che invece ti propongo qui, basato sulle teorie dei tipi psicologici di Jung, è tutt’altro che superficiale e mediamente molto attendibile. Provare per credere!

Te lo linko direttamente nella versione italiana: Test delle 16 personalità.

Riguarda la sfera professionale, ma non solo. Prenditi un bel 20’ di pausa e rispondi senza filtri.

NB: puoi crederci o no, ma già solo il fatto di avere portato il focus su di te, ti sarà di aiuto.

2. Chiedi a chi ti conosce (bene)

Un altro metodo molto utile è chiedere agli altri cosa pensano di te.

Naturalmente la richiesta va fatta a persone che ti conoscono piuttosto bene: familiari, amici, insegnanti, colleghi di lunga data.

Scegline una dozzina: magari non tutti risponderanno, ma se già una decina di persone ci sta, sarà oro per te.

Chiedi se puoi coinvolgerli in un breve gioco-serio che ti riguarda; poi manda loro una mail con 3 domande:

  1. Quali sono i principali talenti che mi riconosci? Quali le cose che mi riescono bene in modo naturale? Indicane almeno 3, a partire da quella che ritieni più importante e, se vuoi, descrivile in breve.
  2. Tra le mie competenze, virtù, caratteristiche, qual è il mio punto di forza principale? Perché?
  3. Se non avessi fatto il mio lavoro, quale lavoro avrei potuto fare e perché? (Immagina una situazione in cui tutto è possibile).

Dopo avere ricevuto i risultati, integrali con i dati emersi dai test.

A questo punto, il quadro del tuo autoritratto inizia a farsi più definito, vero?

3. Scopri il tuo Superpotere

Per concludere ti propongo 2 cose, in ordine di efficacia.

La prima è un test creativo che a mia volta ho concepito e affinato in anni di coaching, per aiutare le persone a scoprire le proprie doti specifiche e invitarle a guardare in faccia il proprio diamante, il proprio prisma unico.

È un vero e proprio esercizio di consapevolezza: si chiama Scopri il tuo superpotere e lo trovi qui.

La seconda offerta ti fa fare un passo ulteriore.

Ora che, almeno sulla carta, hai un disegno più chiaro di chi sei e quali sono le tue caratteristiche distintive, potrebbe restarti ancora uno scoglio da superare: riuscire a calare le tue qualità e i tuoi attributi in prospettiva, metterli a frutto in relazione agli obiettivi che vuoi raggiungere, e magari, ancora prima, capire quali obiettivi sono giusti e sostenibili per te.

Per questo un’assistente può fare al caso.

Se stai pensando che ti piacerebbe fare una consulenza di coaching, scrivimi, raccontami di cosa ti occupi e quali aspetti ti piacerebbe affrontare. E se hai scaricato e compilato l’esercizio sul Superpotere, inviamelo pure così ne parliamo insieme.


Foto di copertina: Gigi / Unsplash.

Non so se anche tu rientri nel fortunato 95% della popolazione che è dotato di un buon senso dell’orientamento o se, come me, sei tra gli altri 5 su 100 che si perdono anche se cambiano quartiere – no, dai, città – o che, per dirla con eleganza, soffrono di disorientamento topografico.

È una caratteristica che può suscitare simpatia, ansia o fastidio; in ogni caso è ormai noto che i responsabili di questa abilità sono alcuni specifici neuroni che fanno parte del sistema limbico, collocati precisamente nell’ippocampo. Curioso scoprire che l’orientamento è collegato al senso dell’olfatto, di cui condivide alcuni recettori nervosi; non a caso molti mammiferi si orientano, migrano e sopravvivono grazie agli odori.

La buona notizia è che il senso dell’orientamento si può esercitare e affinare. Sia in senso stretto, grazie a discipline sportive come l’orienteering, sia in generale nella vita, con un po’ di metodo e di allenamento, a patto di non perdere autostima e scoraggiarsi – che è un attimo.

Se la tua soluzione invece è usare il navigatore, capisco; ma sappi che stai barando e così il cervello si impigrisce.

Cosa c’entra il coaching con tutto questo?

Moltissimo: il coaching sta alla tua vita professionale (e personale) come la bussola sta all’orientamento. È uno strumento, anzi un’intera metodologia, che ti aiuta a indirizzarti, a capire dove sei e dove puoi andare.

La richiesta di coaching nasce spesso da una crisi, da uno sbandamento, dal bisogno di un sostegno quando vengono meno le forze o la lucidità e ci sentiamo, appunto, disorientati.

Esattamente come nel nostro funzionamento cerebrale, per rimettersi sul percorso e raggiungere una meta servono 2 variabili. Occorre sapere:

  • dove ci si trova
  • dove si sta andando.

Lo dico da anni, ma ora che anche tre premi Nobel sono dalla mia, non ci sono più scuse 😉.

[Forse non tutti sanno che…] Nel 2014, il premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia è andato a tre scienziati che hanno ricostruito come funziona il GPS interno del cervello. I ‘neuroni di posizione’ individuano dove sei (scoperta di John O’Keefe); i ‘neuroni griglia’ si ambientano nello spazio e ti dicono dove stai andando (scoperta dei coniugi May-Bitt ed Evard Moser). La combinazione dei 2 sistemi sta «alla base della nostra capacità di orientarci nello spazio» (fonte).

Però non è solo un fatto meccanico; funziona se mantieni attivo un senso di libertà e di fiducia. Infatti «anche la psicologia gioca un ruolo chiave nella nostra capacità di orientarci: ci orientiamo peggio quando siamo in apprensione» (fonte).

La metodologia del coaching offre esattamente questo: ti aiuta a capire dove ti trovi ora, dove vuoi (e puoi) andare e come recuperare le energie, le risorse e l’equipaggiamento per raggiungere la tua destinazione. Sostiene la motivazione, verifica di volta in volta le tue tappe intermedie e ti incoraggia a proseguire sulla strada che hai individuato come buona per te.

Se tutto questo ti orienta bene (cheers), se hai voglia di viaggiare e di muoverti, di aprire i tuoi orizzonti, di sapere dov’è il tuo est, iscriviti alla newsletter e approfitta subito di un primo esercizio di orienteering con la mia versione dell’Ikigai.

Se invece vuoi affrontare e disegnare il tuo cambiamento, ti propongo il percorso Scenario, con cui ti aiuto a ripensarti per trovare la soddisfazione che oggi ti manca.


Foto di copertina: by S Migaj / Unsplash.

 

Quando si decide per un cambiamento, c’è chi ha gli obiettivi molto chiari e chi ha intenzioni che sono ancora allo stadio di immaginazione. In ogni caso, quando il processo si è attivato, è difficile che scatti il desiderio di tornare indietro.

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La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite. È la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più.

Marianne Williamson

Sono sempre stata una persona con un forte bisogno di autorealizzazione, personale ed economica. Ho sempre avuto il desiderio di lasciare un mio piccolo seme nel mondo.

Finché è stato possibile farlo nell’azienda in cui ho lavorato per vent’anni, ne sono stata grata e felice. Poi, a volte, gli equilibri mutano, non necessariamente per colpa di qualcuno: semplicemente cambia lo scenario, o cambi tu.

Fino al 2015 lavoravo come Export Manager in una multinazionale della logistica: ero una responsabile nel settore delle esportazioni internazionali (ho studiato lingue). Era un lavoro di grande responsabilità, in un ambiente stimolante e con un buon clima umano.

A un certo punto ho sentito forte il bisogno di portare fuori da quel contesto ciò che sapevo fare e di trasformarlo in qualcosa di diverso, che avesse più a che fare con le persone che con le aziende e i prodotti.

Di fatto, come capo ufficio, mi occupavo già di persone; dovevo entrare in sintonia con loro, lavorare insieme e guidarle a realizzare gli obiettivi aziendali. Poi mi sono resa conto che il mio desiderio profondo era quello di aiutarle a credere in loro stesse e a vivere appieno la propria vita, a prescindere dal contesto.

E così ho cominciato la mia formazione al coaching.

Perché proprio il coaching?

Il coaching mi offriva la possibilità di fare ciò che avevo sempre fatto in modo istintivo, prima di sapere che fosse una professione: aiutare le persone ad avere fiducia in sé e a realizzarsi, personalmente e professionalmente.

Leggi –> Business Coaching: Come funziona e a cosa serve (secondo me)

L’ho sempre fatto con chiunque incontrassi sul mio percorso, lavorativo e non. È più forte di me. Detesto gli sprechi e non vedere realizzati i propri sogni è un vero sperpero. Anche non condividere il proprio talento e valore è uno spreco, per sé e per gli altri.

Le premesse erano ideali: per diventare coach servono buone doti di metodo e analisi, che avevo ampiamente esercitato nel mio ruolo manageriale in azienda; ma anche ascolto, attenzione, intuito: tutte caratteristiche che sento mie e che mi hanno sempre aiutato nelle relazioni con gli altri.

Da un lato la paura, dall’altra il mio potenziale

Quello da lavoratrice dipendente a libera professionista era certamente un salto enorme. Avrei lasciato il certo per l’incerto; ma a un certo punto ho capito che era l’unico modo per mettere in gioco tutta me stessa e le mie aspirazioni. Era anche l’unica strada per unire missione e passione, in un progetto che fosse davvero mio e potesse evolvere con me.

Così ho gettato il cuore oltre l’ostacolo, cercando di organizzare al meglio il mio piano. Magari avessi avuto accanto qualcuno ad aiutarmi in questo passaggio! Avrei risparmiato tanto tempo ed errori.

Quando ti disponi al cambiamento, la posta in gioco è molto alta: da un lato devi mettere in conto di investire energie e denaro, tenendo sempre alta la tua motivazione; dall’altro c’è in palio il tuo valore, il tuo potenziale. Tra questi due poli corre una grande dose di incertezza, che non si sa come affrontare e che rappresenta spesso uno dei deterrenti principali.

La paura è sicuramente il più grosso ostacolo al cambiamento. Si presenta in varie forme, più o meno confessabili. A volte è sana e ti tutela; ma nella maggior parte dei casi ti lega, ti impedisce di sperimentare e superarti.

In una fase di crescita, è normale che le paure ci assalgano, bloccando le nostre potenzialità. Ci frenano all’inizio e poi di nuovo lungo il percorso, impedendoci di superare gli ostacoli e di rialzarci dalle cadute, che sono inevitabili. Lo so, perché ci sono passata, dunque sono referenziatissima.

The Wall: 3 punti chiave

Per ricostruire le radici profonde della mia scelta di cambiamento, voglio raccontarti una storia.

Il primo film che ho visto al cinema senza i miei genitori è stato Pink Floyd The Wall, di Alan Parker. Era vietato ai 14 anni. Ci andai con le mie amiche più grandi: loro andavano già alle superiori ed erano in regola; io invece non li avevo ancora compiuti, ma dimostravo un po’ di più e riuscii a farla franca.

Il film fu davvero molto forte e io non ero per niente preparata a quelle scene inquietanti. Oggi mi rendo conto che fu per me un passaggio fondamentale, anche se molte cose le avrei capite solo anni dopo.

La sensazione che quella sera mi portai a casa era di condivisione delle emozioni, della paura e del dolore. Realizzai che certi crampi allo stomaco non erano solo miei: non ero l’unica a provare disagio di fronte ai rimproveri ingiusti dei professori o alle liti teatrali dei miei genitori. Da quella sera mi sentivo meno sola.

In più imparai anche un’altra cosa importante: che la vita è una lotta e che, per ottenere qualcosa, bisogna prenderselo.

The Wall fu l’inizio della mia ribellione adolescenziale.

Oggi la portata di quell’iniziazione mi è chiarissima. La individuo in particolare in 3 punti chiave.

  1. Prima di tutto so che la paura esiste e che va affrontata. Anche se ce l’hanno tutti (e magari non lo ammettono), nessuno ci insegna che cosa sia veramente, né come gestirla. Quando ci rendiamo conto che tutti abbiamo timori destabilizzanti, dubbi inconfessabili, attacchi di panico o di colite, di solito, è già molto tardi.
  2. Sono riuscita a cambiare lavoro, vita e atteggiamento, nel momento in cui ho capito che il mondo lì fuori non mi doveva niente e che il coraggio e la forza avrei dovuto trovarli dentro di me, e usarli. Non è all’esterno che troviamo la motivazione, ma all’interno di noi stessi. È una notizia buona, perché ci dà potere, ma nello stesso tempo impegnativa, perché ci carica di responsabilità. Non c’è posto per le scuse.
  3. Un’altra cosa, in cui credo molto, è l’importanza della condivisione. Quello che pensi e che fai, perfino quello che sei, ha senso solo se ti confronti con gli altri. Per citare una frase di un altro film, Into the wild: «Happiness is only real when shared» (La felicità è reale solo se condivisa). Non vale solo per i sentimenti, ma anche per le competenze, le idee e persino i contatti: se non li condividiamo, il loro frutto sarà molto limitato. Se invece li mettiamo in circolo, ci torneranno moltiplicati. Oggi questo è uno dei capisaldi del mio stile di vita e di lavoro. Ne ho parlato anche in un articolo su Come fare un networking efficace, dove tratto la capacità di condividere e generare relazioni come un vero soft skill.

Oggi sono la figura che avrei voluto accanto

In qualità di business coach, oggi la mia missione è aiutare le persone a conoscersi, definire i propri desideri e raggiungere i propri obiettivi nel modo migliore. Dove migliore significa: nel modo più efficace, realistico e plausibile per sé – non per altri. Con prudenza e audacia, amo aggiungere; perché la prudenza è del saggio, ma non è un motore.

Poco dopo l’inizio della quarantena, Baricco citava la scena di un romanzo svedese, in cui la regina sta imparando ad andare a cavallo. Monta in sella e poi, con tono di superiorità, si rivolge al maestro di equitazione: «Quali sono le regole?». Lui risponde: «Prima regola: prudenza. Seconda: audacia».

Non è un invito all’incoscienza. È una questione di visione e di analisi dei fattori. Qualsiasi mossa deve sempre partire da chi siamo, conoscere i nostri punti di forza e le debolezze che ci mandano in stallo. Il coaching parte proprio da questa consapevolezza – se hai fatto l’esercizio creativo del Superpotere sai di cosa parlo.

La mia storia personale mi ha messo davanti a tante ripartenze, dunque oggi posso dire con serenità che me ne intendo 🙂

Mi sento specializzata in cambiamento e posso aiutare chiunque voglia affrontarlo, in modo non solitario o improvvisato, senza passi falsi. Non sempre è una questione di energie o di fattibilità, a volte si tratta di trovare la chiave per accedere alla prossima porta.

Come dipendente prima e come freelance dopo, avrei tanto voluto avere anch’io dei punti di riferimento chiari e magari qualcuno che sapesse ascoltarmi, aiutarmi a definire i miei obiettivi e a tradurre le idee in un piano proficuo di strategia e azione.

Io oggi sono quel qualcuno. Sono la figura che avrei voluto accanto allora.

Come funziona e a cosa serve il business coaching è una delle domande più frequenti che ricevo da quando faccio questo mestiere, che è la mia passione e la mia missione. Ho deciso di rispondere per iscritto, nel modo più semplice possibile, cioè evitando le tipiche espressioni un po’ oscure da addetti ai lavori. Tu che leggi potrai non solo orientarti e saperne di più, ma anche capire se fa per te.

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La mappa dell’empatia o empathy map è uno strumento di indagine che ha lo scopo di tracciare un profilo  dettagliato del tuo interlocutore e potenziale cliente: ti permette di conoscere e comprendere i suoi bisogni e i suoi problemi, e ti aiuta nel creare la tua strategia di comunicazione efficace.

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Non era prevedibile che potesse arrivare una pandemia come il Coronavirus a sconvolgere la nostra vita personale e professionale, ma ciò che è certo oggi è che un cambiamento c’è stato, ed è necessario fotografare la situazione attuale e lavorare sul cosa fare per il futuro delle imprese e dei piccoli business.

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